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Oi Dialogoi

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Dialogo è una delle svariate parole d’origine greca che affollano la nostra bellissima lingua, una delle tante che utilizziamo in automatico, senza percepire la diversità delle sue radici. Una parola che è entrata così a fondo nella nostra quotidianità da renderla più vicina e amica di una più oscura (e sospettosa) epistemologia o di una più scientifica otorinolaringoiatria.

Ma cosa significa esattamente dialogo?
Regola generale: quando c’è di mezzo la parola logos, quello che determina il significato di questo termine polisemantico è, di solito, ciò che viene prima e lo qualifica.
Dialogo, nella fatispecie, è un termine composto dalla particella δια (attraverso) e λογος (discorso, parola, pensiero). Quindi, un dialogo è ciò che esprimiamo attraverso le parole, ché sono proprio le parole lo strumento che utilizziamo per definire ciò che vogliamo dire.
Il dialogo, in un filosofia, è lo scambio di idee tra due contendenti (pensiamo ai Dialoghi di Platone); in letteratura sono le battute che i personaggi pronunciano, e che servono all’autore per definire i loro caratteri e le loro personalità.
Il dialogo è quello che, assieme alla descrizione, compone la parte visiva di un racconto o di un romanzo. Tutto il resto (trama, intreccio, punto di vista) è un lavoro che l’autore fa dietro le quinte e svela piano piano al lettore, attraverso le parole, appunto.

Ma quanti tipi di dialoghi esistono?
Dalle scuole elementari, sappiamo che sono, in sostanza, due: il discorso diretto e il discorso indiretto. È facile riconoscerli, ché sono l’uno l’inverso dell’altro. Ma, andando avanti a leggere, scoprirai che i tipi di dialogo sono quattro, come i gruppi sanguigni e gli elementi: discorso diretto, discorso indiretto, discorso libero indiretto e discorso in flusso di coscienza.

Discorso diretto

È la serie di battute pronunciate dai personaggi di un racconto o di un romanzo, le parole esatte che questi pronunciano. È come se la voce narrante, quale che sia la sua persona, facesse un passo indietro per lasciare spazio alla verace testimonianza di quanto detto in questa o quella occasione.
Di solito, il discorso diretto è introdotto da una serie di convenzioni grafiche, proprio a voler dire al lettore: «Attento. Qui si interrompe la voce narrante e quelle che senti sono le voci dei personaggi.».
Come vedi, anche io ho utilizzato un discorso diretto, qui sopra, utilizzando le virgolette alla caporale («Mangia, Giulio!»). Un altro segno grafico sono le virgolette alte (“Mangia, Giulio!”) o una lineetta che spesso non è replicata in fine di battuta (-Mangia, Giulio!).
Non c’è una convenzione univoca, sebbene l’uso delle lineette richiami i copioni teatrali e le virgolette si affaccino per lo più nei romanzi e nei racconti.
Sono decisioni, queste, che variano da autore ad autore, secondo la propria esperienza (a me non passerebbe nemmeno per l’anticamera del cervello di usare le virgolette alte, per dire) e che poi la casa editrice pensa ad uniformare secondo i suoi, di standard.
C’è da dire, per amor di precisione, che le virgolette nostrane sono quelle alla caporale – ché a noi le cose militari piacciono un casino, dall’Impero Romano in giù – e solo recentemente si è sdoganato l’uso delle virgolette alte, grazie alla diffusione della letteratura anglo-americana (“vanno un casino, laggiù!”, cit.) e alla pigrizia dei traduttori e correttori di bozze che si sono adagiati su quest’uso, creando, di fatto, un calco.

Quali che siano i segni che hai scelto, resta imprescindibile l’osservanza di altre due convenzioni:
*si va a capo ad ogni dialogo;
*se il dialogo è alla fine di una frase, si introduce con i due punti;
*si usino le virgole durante gli incisi;

Ok, sono tre convenzioni.
Va beh, non credo che l’Inquisizione Spagnola sfonderà la porta di casa per questo, no?

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«Cardinal Fang! Read the charges!»

Va beh, dicevamo…

Elena si avvicinò alla finestra e, guardando all’esterno, disse: «Piove molto forte, eh?». Poi, stringendo le tende, aggiunse: «Forse non smetterà.».
Paolo convenne:«No, non smetterà. Anzi.», e  alzò lo sguardo dal giornale, piazzando i suoi occhi neri in quelli della ragazza. «Vuoi fermarti per la notte?»

 

Discorso indiretto

Il Discorso Indiretto è l’esatto opposto del Discorso Diretto. Si limita a riportare quanto i personaggi abbiano detto, scelta che si opta quando chi parla – sia essa la voce narrante o un personaggio – riassume per sommi capi uno scambio di battute. Non beneficia di alcun segno grafico d’introduzione; in pratica, si incorpora l’enunciato della battuta e lo si fa diventare una subordinata.

Elena si avvicinò alla finestra e, guardando all’esterno, disse che pioveva molto forte. Poi, stringendo le tende, aggiunse che forse non avrebbe smesso.
Paolo convenne che non sarebbe smesso e  alzò lo sguardo dal giornale, piazzando i suoi occhi neri in quelli della ragazza. Le chiese se volesse fermarsi per la notte.

In questo caso, occorre fare attenzione alle concordanze di tempo, spazio e persona.
Se il tempo verbale è al presente, non c’è necessità di cambiare alcunché:

Marco chiede alla madre: «Posso mangiare un altro gelato?». (discorso diretto)
Marco chiede alla madre se può mangiare un altro gelato. (discorso indiretto)

Se, invece, i tempi sono al passato, occorre seguire le regole della concordanza dei tempi e adattare le forme verbali di conseguenza. Uno specchietto molto utile si trova qui. Consiglio di dargli un’occhiata, di tanto in tanto.

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Discorso indiretto libero

Si tratta di un ibrido dei primi due. Lo si usa quando si vuole riportare un discorso utilizzando le stesse parole – o quasi – sentite dire dal parlante. Non c’è nessun segno grafico, né alcun uso particolare dei verbi enunciativi (dire, affermare) e/o della congiunzione che.

Elena si avvicinò alla finestra e, guardando fuori, disse che pioveva molto forte e che , forse, non avrebbe smesso tanto presto.
Paolo convenne che no, non sarebbe spiovuto a breve. Anzi. Poi, alzando gli occhi dal giornale e  piazzandoli in quelli della ragazza, le chiese se volesse fermarsi per la notte.


Flusso di coscienza

E qui le cose si fanno un po’ più complicate, ché la narrazione in flusso di coscienza richiederebbe un articolo a parte; ma ti potrebbe capitare di imbatterti in un racconto scritto usando questa tecnica narrativa, sicché, poiché mi ci trovo, tanto vale affrontare anche questo tipo di discorso.
Il flusso di coscienza è una narrazione a briglia sciolta, che salta e stravolge le normali regole e convenzioni che tutti noi conosciamo. Ci sono anacoluti, ellissi, ripetizioni. Le regole sintattiche saltano a beneficio di una resa il più aderente possibile alla concatenazione dei pensieri che si formano nella mente dell’Io narrante.
Prima che tu te lo chieda, sì, la stragrande maggioranza dei racconti in flusso di coscienza utilizzano la prima persona.
Si tratta di una narrazione fluida – Dove finisce un pensiero? Dove ne comincia un altro? – filtrata attraverso gli occhi dell’Io narrante per dare al lettore l’impressione di trovarsi all’interno della testa del protagonista ed assistere, così, alla nascita dei suoi pensieri.
Non ci sono regole fisse, ché il flusso di coscienza è qualcosa di molto personale e ancora poco battuto – un filo ostico, a meno che non si voglia trattare un romanzo psicologico o non si voglia dare al proprio racconto un taglio più intimista e personale, ai limiti, quasi, della confessione. Posso mostrarti come lo metto in piedi io stessa, ché, prima o poi, anche un racconto in prima persona deve riportare cosa dicano gli altri, siano esse persone reali o parti della fantasia.

Mi avvicino alla finestra. Fuori piove davvero forte. Non smetterà, dico. Non tanto presto.
Paolo dice, no, non smetterà. Alzando lo sguardi dal giornale. Anzi, dice. Non è che vorresti fermarti per la notte?

 

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Concludendo

Cosa spinge un autore a scegliere una forma rispetto all’altra?
Gusto personale.
Sic et simpliciter.
Viene da sé che le prime tre forme di discorso siano intercambiabili all’interno di un testo e che possano coesistere tra loro, e che le si debba acconciare all’uopo se si sceglie una narrazione in flusso di coscienza.
Non è pensabile poter usare solo il discorso libero indiretto, ché questa scelta darebbe al racconto o romanzo che sia l’aspetto poco allettante di un riassunto, uno di quelli che il professore di Lettere richiedeva come prova di comprensione del testo (almeno, ai miei tempi, ogni singolo brano presupponeva un riassunto per il giorno successivo).
Ma, quale che sia il discorso che hai scelto – e sì, potrebbe anche essere un intero racconto scritto usando il discorso indiretto. Mi piace essere smentita! – sii chiaro.
Adotta sempre le medesime convenzioni e mantieniti fedele alle stesse.
Non preoccuparti del lettore. Chi legge non è stupido, e imparerà a colpo d’occhio quali sono le convenzioni che ti piacciono di più (o che piacciono alla casa editrice; ma questa è un’altra storia…), ma guai a cambiare strada a metà percorso!
Una scelta simile denota insicurezza e non c’è niente di peggio di un autore indeciso.
Annoia.
Crea confusione.
Costringe il lettore a prestare attenzione non alla trama.
Invece, chi legge è in cerca di una pausa di evasione dalla propria quotidianità fatta di scadenze e bollette, non vuole dover risolvere un’equazione a tre incognite perché un momento hai scelto le lineette e quello dopo le virgolette alte e quello dopo ancora le virgolette alla caporale (e, per amor di Dio, fate attenzione: i segni sono questi « e », NON << e >>!  Le trovate digitando ALT+174 e ALT+175. O impostatele con le scorciatoie di tastiera!). Questo genere di persone si sollazza coi Quesiti della Susi de «La Settimana Enigmistica».
Il tuo lettore, invece, vuole sì pensare, ma sono i dettagli della trama quello che gli interessano. Io sono sicura che sarà più interessato a cercare di capire chi sia l’assassino – il giardiniere con un occhio di vetro o la procace e bionda segretaria cogli occhiali ? – oppure palpitare assieme alla protagonista  – circa i segreti che circondano la dipartita della defunta madre o l’aitante veterinario che si è trasferito in città? – non perdere tempo a capire le convenzioni che  sono saltate di colpo nel capitolo sette (Per tutto il capitolo? Per tre quarti? Una riga sì e una no?), per non si capisce quale motivo.
Lo so. Questi consigli potranno sembrarti il borbottare di una zia piuttosto antipatica, o di una maestrina dalla penna rossa, ma posso assicurarti che no, non è così (sì, sono una zia parecchio scassaballe, ma adesso questo non c’entra).
Ti parlo da lettrice. E sapessi quant’è antipatico incappare in un autore indeciso! È come farsi una passeggiata in un giardino devastato dalle talpe o andare in motorino per le strade di Roma: un percorso ad ostacoli disseminato di buche.
Ti pare questa una passeggiata di svago? E se la risposta è sì, cosa sei? Un coniglietto?
Tieniti stretto il tuo lettore, invece!
E consentigli di passeggiare nel tuo giardino lungo sentieri curati, aiuole fiorite e vialetti di ghiaietto senza il pericolo di mettere un piede in fallo, mentre la sua mente ascolta la storia che tu gli stai raccontando.

10 pensieri riguardo “Oi Dialogoi

    1. No, vabbé, devo ancora incontrarlo il matto che usa le virgolette alla tedesca all’interno della prosa in italiano! Anche se devo ammettere di aver incontrato un paio di genii del male che suggerivano di mettere punti esclamativi ed interrogativi rovesciati, all’interno delle battute pronunciate da uno spagnolo madrelingua…

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  1. Di quei fulminati che mettono i punti esclamativi e interrogativi rovesciati in inizio di frase, quando è uno spagnolo madrelingua a parlare, ne ho trovati un paio anch’io. Il che potrebbe finanche avere senso se il tizio sta parlando appunto in spagnolo, ma non è neanche sempre il caso… Quindi mi limito a perplimermi.
    Credo di avere un paio di vecchi romanzi (probabilmente i volumetti datano al ventennio) che utilizzano le virgolette tedesche – un titolo di cui sono sicurissima (perché chi se lo scorda!) è il pomposissimo “La battaglia di Benevento” di Guerrazzi. Probabilmente però è soltanto una circostanza dovuta al fatto statistico che io tendo a possedere libri improbabili nella versione più kitsch possibile.
    Se poi espandiamo il campo dalla narrativa alla saggistica o alla letteratura scientifica, mi è anche capitato di incontrare – in un paio di volte pure di persona – scoppiati che si ostinano ad usare le virgolette che a me hanno insegnato a chiamare polacche (»…« ) – ma, dal momento che è farina del sacco dei suddetti scoppiati, mi fido poco.
    Niente da fare, però: la punteggiatura è uno degli aspetti più interessanti della scrittura, sia per i segni grafici, sia per la sua funzione concettuale (non sempre chiarissima) sul piano della semantica e della sintassi, e poi perché è un’invenzione sorprendentemente recente.
    Inutile dire che sono una fan del punto e virgola e del trattino – che bello che è il trattino!

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    1. Insomma. Il punto esclamativo e/o interrogativo rovesciato per segnalare la giusta intonazione è una regola dello spagnolo scritto. Se chi parla è spagnolo, non credo proprio che valgano quelle regole quando si riporti il suo discorrere – sia esso diretto o indiretto o indiretto libero o in flusso di coscienza. Sarebbe come se un parlante giapponese si esprimesse visivamente con i kanji. Ti sembra possibile? Qui si sfiorano soluzioni da fumetto, o graphic novel a voler fare i fighi. Per cui, mi sento di dire un no deciso a punti esclamativi ed interrogativi piazzati a caso a testa all’ingiù. Lo stesso valga per le virgolette alla polacca (Mai. Sentite. Prima) o qualsiasi altra differenza stilistica. Un conto è far esclamare a qualcuno «Carramba!!», un altro è pretendere che questo qualcuno parli secondo le regole grafiche della propria lingua. Insomma, la sospensione dell’incredulità sale in cattedra e dice «Basta!». Almeno, la mia lo fa. =)

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      1. De facto, sono completamente d’accordo con te. Epperò, sarà che mi piace il pour parler o semplicemente il pensare ozioso, mi chiedo se in una certa misura la posizione opposta non possa avere qualche giustificazione – a prescindere dall’ottimo contro argomento che simili vezzi in letteratura portino alla sospensione dell’incredulità, o comunque spingano il lettore fuori dal patto narrativo. Proviamo ad estendere il discorso a qualunque tipo di testo scritto. Cosa fanno le virgolette? In genere, almeno per la casistica che mi viene in mente (e la mia mente è al momento abbastanza obnubilata dalla carenza di caffeina), quasi tutti i tipi di virgolette hanno due funzioni generali di base: quella di citazione e quella che chiamerei di (vari tipi) “astrazione” – “astrazione” qui è un buon esempio, o meglio la prima delle con questa tre occorrenze di “astrazione”, e quest’ultima anche, in una certa misura. Nel dialogo, è la prima funzione della virgolettatura che sembra essere in azione. Ma che cosa si cita? Forse l’accettabilità del ricorso alle regole grafiche di altre lingue, quando il frammento di testo citato è in un’altra lingua, può dipendere dalla risposta a questa domanda. Perché se si cita un fatto fonetico – o, meglio, la trasposizione grafica di un fatto fonetico: la frase pronunciata -, allora no, non sembra doversi applicare la regola grafica della lingua in cui la frase di cui il fatto fonetico citato è espressione. Ho l’impressione che lo stesso discorso si applichi se quello che si cita è pensato come un contenuto concettuale – ma ho dubbi seri che questa sia un’eventualità sostenibile. Se però quello che è citato fra virgolette è un frammento di linguaggio, allora che si fa? Forse i sostenitori dei punti esclamativi ribaltati hanno in tal caso un punto d’appoggio – o potrebbero avercelo se non fossero un manipolo di fighetti che vogliono fare gli hip o gli intellettualoidi. Ciò detto sostengo «Carramba!!» e «Basta!». 🙂

        P.S. Però, pensandoci, a livello istintivo, ci sono delle scelte grafiche potenzialmente da fighetti per cui io ho una certa tolleranza, se non addirittura simpatia: per esempio, non traslitterare il greco, o – caso limite – il russo. Perché allora tutto il mio povero spirito urla “no!” se non si traslittera l’arabo o il giapponese? (Per rimanere su lingue che funzionano più o meno come le indoeuropee e sono dunque facilmente traslitterabili: sulla traslitterabilità del mandarino probabilmente mi cruccerei se ci pensassi. Ma non ci penso!)

        P.P.S. Altra grande questione esistenziale che probabilmente sembra degna di nota soltanto prima di andare a dormire: le differenze fra virgolette e trattino (nel dialogo)! Perché il trattino non sembra avere la stessa natura di strumento di citazione delle virgolette…

        P.P.P.S. Ora mi becco l’Inquisizione Spagnola!

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      2. Discussione interessante, la tua.
        Le virgolette citano.
        Sissignore.
        Sospendono la narrazione e dicono al lettore che quanto seguirà sono le esatte parole pronunciate dal personaggio X. Astraggono, quindi, l’attenzione dalla narrazione dura&pura e la focalizzano sulla bocca del personaggio, sulla sua voce.
        Ed è qui che casca l’asino.
        La voce.
        Uno dei cliché più abusati è quello di riprodurre – per quanto possibile – le inflessioni tipiche della lingua del parlante, qualora sia differente da quella usata dagli altri personaggi. Avrà senso sporcare la voce di Rodrigo con alcune inflessioni spagnole («Carramba! Esta es una tontaria! È davvero una scemenza, Marco!») se piazzo il suddetto spagnolo in un paesello sulla costa, che so?, del Tirreno. Dove, di norma, si parla italiano. Ma se Rodrigo è uno spagnolo in terra spagnola, va da sé che fargli pronunciare la frase di cui sopra ci sta come i cavoli a merenda.
        E questo vale per tutte le altre lingue (e sì alle traslitterazioni per quei linguaggi che utilizzano alfabeti differenti da quello latino: greco, russo, croato, coreano e via cantando.). E lo stesso dicasi per gli ideogrammi del cinese e per quell’ibrido che è il giapponese.
        Fino a quando si tratta di grammatica, la si segue più o meno indefessamente (io taglierei le mani a quelli che scrivono «Ho diversi hobbies», ché in italiano i termini stranieri sono anomalie e si maneggiano come se fossero dei singularia tantum), scrivendo François, Hurricane, Sayoonara e via di seguito; quando si tratta di convenzioni grafiche che interessano la lettura, io penso si debba tirare dritto e amen, ché non si sta parlando di regole grammaticali. Io la doppia s del tedesco (ß) sono restia ad utilizzarla, ma tentenno, ché si tratta di una convenzione grafica interna alle parole. Un po’ come la cediglia (ç), colla differenza che mentre il primo simbolo è semplicemente una doppia geminata breve, il secondo ammorbidisce una consonante, rendendola dolce e rendendo di fatto possibile la pronuncia suà. Si tratta sempre di voce.
        I punti rovesciati, no; i punti rovesciati servono solo a far capire l’intonazione giusta da dare alla frase che li segue. Nulla aggiungono e nulla tolgono all’inflessione spagnola. Altrimenti, dovrei usare le virgolette alla giapponese ogni santa volta che faccio parlare un nativo del Sol Levante?
        Dovrei dunque scrivere così:
        Seiya [Passami il sale], disse.
        E tu capisci che proprio NO.
        Poi, siccome ultimamente parlo e subito dopo passa l’angelo dicendo “Amen”, può essere possibile usare i punti rovesciati all’interno di un testo. Forse Queneau avrebbe potuto farlo; ma tu ne vedi altri, di Queneau, in giro?
        P.S. Hai ragione, il trattino non cita. Il trattino sega lo spazio, crea bolle in cui infilare incisi; allora sì, si apre e si chiude, ché ogni parentesi va trattata così. Ma quando delinea un dialogo, non so, mi sembra si lasci una voragine alle spalle. Per questo lo trovo più adatto ad un copione teatrale, che ad un testo in prosa. Senza contare che molti autori lasciano uno spazio, dopo il trattino, col conseguente risultato che Word elabora quel trattino come fosse un elenco puntato, e quindi ti ritrovi una serie di dialoghi disposti come all’interno di una lista della spesa…

        P.P.S. Il greco lasciato tout court lo accetto nei titoli, o nelle citazioni.

        Τα Пαιδία Ερθαν eccetera eccetera, va in greco. =)

        P.P.P.S. Uh, io spero sempre nella tortura della comfit chair…

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  2. Virgolette, Trattini o Caporali? Io credo che i caporali vadano tantissimo! Quindi caporali! Ammetto di usare per comodità … soprattutto nel blog … <> o anche per pigrizia. C’è anche a monte un discorso estetico. Il trattino apre la battuta di dialogo, ma non sempre la chiude. Le virgolette alte sono deboli, sembrano esprimere pensieri. I caporali invece marchiano e delimitano.

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    1. Io faccio parte di quella generazione per cui le virgolette alla caporale sono quelle relative ai dialoghi, e quelle alte si usano per i pensieri. Perché, come dici tu, sono più evanescenti e meno definite delle colleghe. I trattini, come rispondevo a Graziana, bucano lo spazio, sono effimeri. Non si preoccupano di chiudere la porta, potremmo dire, ché sono enunciati puri. Ecco, perché, si usano nei copioni teatrali. Conta la parola.

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